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... faustae tibi leges sint ... Andrea ... Marina ... qui ... quae ... hodie jus tuum facis ...
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... tibi semper carum domos aedificare ... ** ** ** ... qui hodie Vitruvium ipsum inter amicos habes
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il ricatto silente
... the silent blackmail
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la persuasione silenziosa
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Dialogo sopra il sistema scolastico italiano
dagli anni settanta al 2008
Rosetum VIII a d K Martias
Roseti, giovedì 22 febbraio 2007
Argos&Ruphus Editori
Opus et onus
Rosetum a d VII Kalendas Martias MMVII
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Piero
Paolo
Gennaro
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I tre amici passeggiano in una sera di fine maggio lungo la via panoramica oltre Porto S. Stefano, sull’Argentario.
E’ una serata magnifica.
Il cielo e’ scuro, senza nuvole, stellato.
Il mare scintilla a tratti sotto i raggi della luna, come argento fuso.
In lontananza si vedono le luci dei paesi sulla costa di fronte: Magliano, Manciano, Albinia, Capalbio.
Talamone.
Siamo quasi alla fine dell’anno scolastico.
I tre si sentono meno tesi che nei mesi precedenti.
Quasi euforici.
Piero è alle prese con una montagna di schede di giudizio, e quasi avrebbe preferito restare in casa.
Paolo lo ha stanato prendendo per strada un gattino e portandolo nel suo monolocale.
Ne è seguita una baraonda.
Piero, infuriato, ha rincorso l’amico brandendo una lunga asta di bronzo: l’ombra della sera, comprata a Volterra.
Riproduzione d’una famosa statuetta etrusca.
Si sono poi calmati.
Il più spaventato sarà stato il gattino.
Adesso i tre camminano, parlando fra loro.
Che faccia paura un ricatto, si sa.
Ma un ri ... gatto ...
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L’aria è profumata.
Sono i fiori del pitosforo.
Piero è silenzioso, si direbbe seccato.
Paolo è come al solito pronto alla provocazione, ad accendere la conversazione, a costo di attirarsi inimicizia per la natura pungente delle sue affermazioni.
‘Cosa ti hanno detto a scuola, quando hai offerto le tue arance?’
Piero è perplesso.
‘Cos’hai fatto?
Le hai gettate a terra, le hai calpestate!’
‘Cosa dovevo fare? Mi ha trattato in quel modo …’
L’argomento è troppo riservato.
Meglio non approfondire.
‘Gennaro ...
in sezione i compagni sostengono che sei un trotzkista ... addirittura c’è uno che afferma che sei un arrivista ...’
‘E’ il mio destino...
Quando ero nella sinistra del partito democratico, dicevano che ero un comunista.
Adesso i comunisti scontenti dicono che sono un trotzkista...
Secondo te cosa sono io?’
‘Tu sei uno che paga.
Ricordati.
Mai fuggire.
E mai scegliere le strade più difficili.
I pazzi scelgono le vie più difficili.
Tu lo sai perché?’
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‘Paolo, Dio stesso ha scelto la via più difficile per salvarci.
Si è fatto uomo, con i dolori e le angosce dell’uomo, ha sofferto per i propri cari, per gli estranei, per gli amici e per i nemici.
E’ morto, cosa assurda per lui.
E tu dici dunque che Dio è pazzo?’
‘Tu sei sempre troppo problematico, Gennaro ...’
Fa Piero, che prende le distanze dal mio ragionamento estremo.
Si fa tardi, e i tre amici si lasciano.
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Chissà quando si sarebbero lasciati per sempre?
E quale dei tre avrebbe abbandonato gli altri per primo?
Non c’è amore più grande di chi dà la propria vita per i suoi amici.
Forse abbandonare gli amici vuol dire sacrificarsi per essi?
Ora Gennaro è solo e la sua mente è tutta un brulicare di pensieri.
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Rientra a casa.
Nel suo piccolo studio lo aspettano molti compiti da correggere.
Saluta la mamma e si mette al lavoro.
Preferisce le ore della notte per questo lavoro.
Il silenzio gli permette di concentrarsi meglio.
Non ama affatto correggere gli errori degli altri.
Il sistema di svolgere compiti su fogli di carta da riempire poi di segni colorati gli sembra ottuso e ridicolo.
Rilevare gli errori, poi, gli sembra in sé una violenza inutile e arbitraria.
A volte pensa che l’errore stesso non esista, non sia una entità da elevare al piano nobile dell’esistere.
E’ errato un qualcosa che esce fuori dalla normalità.
Ma ciò che non è normale semplicemente non è.
Oltretutto segnare gli errori, e trascurare le parti corrette, gli sembrava aberrante, abnorme.
Tutta la scuola era basata sul culto dell’errore.
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Non si parlava d’altro che degli ‘sbagli’, mai delle cose correttamente dette, svolte.
Cattedrali, templi votati non al culto della cultura e della ricerca, ma talvolta dell’abnorme, dell’errore, queste erano i palazzi e le case dell’istruzione.
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Eppure i professori stessi, che erano diventati i sacerdoti di questi santuari dell’errore non erano certo immuni dal vizio di commetterli, anzi, si sarebbe detto che a furia di frequentare alunni errabondi ed erranti, per loro stessa ammissione, gli stessi insegnanti ne avevano assorbito tutta l’ignoranza, anziché combatterla e vincerla, come accade a quei terapeuti che inesorabilmente finiscono con l'assumere le patologie degli stessi malati, ove vogliano ad essi dedicarsi con la intensità adeguata o con maldestra familiarità ...
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Si erano prestati, costoro maestri o terapeuti del sapere e della conoscenza, ad un compromesso.
Avevano stretto un patto nella scuola con quello che era il dèmone stesso dell’istruzione: l’errore.
Come se dei sacerdoti avessero patteggiato con il dèmone del labirinto che si nasconde nella mente e può trascinare l'anima, il concorrente per antonomasia dello spirito religioso, ma anche il suo necessario contrappeso.
Del resto il ''demònio'' non è sempre quello che comunemente si crede.
Non è brutto, viscido, repellente, immondo.
Ha un’apparenza, all’occorrenza, quasi elegante, gradevole ma non affettata, si presenta come un’alunna o un alunno che chiedano di essere aiutati in cambio di un po’ di soldi, con qualche opportuna ‘ripetizione’.
Reperita juvant.
Disposti quindi a prendere privatamente lezioni, magari.
E a pagare ‘’a ore’’.
Un insegnante con quattro abilitazioni all’insegnamento non è nulla, se non prende una certa cifra ‘’a ore’’.
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La legge della più severa moralità non consentirebbe certi esercizi acrobaticamente e didatticamente articolati, ma la familiarità, l’amicizia, una certa economia e la pratica della ‘lectio sine discipulis’, ma con un pubblico sceltissimo e ‘’privato’’, quella sì.
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Si presenta, Mefistofele, come un preside compiacente, tollerante, che magari non sia un freddo burocrate, che giunga con comodo la mattina, per non opprimere i docenti e non affannare gli alunni, che se ne vada un’ora prima per mettere a proprio agio impiegati e tutto il personale, o che resti a scuola vuota nel suo confortevole ufficio, o che venga un po’ il pomeriggio con un manipolo scelto di specialisti della didattica, così che l’apparato scuola famiglia in questo modo possa continuale a ritmi blandi, umani la grande caccia, il grande safari alla belva che infesta gli istituti scolastici: l’idolo nefasto dell’errore.
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Il demònio è subdolo, astuto, non spaventa, blandisce, attrae, affascina, trasforma la legge in una gabbia dalle sbarre di gomma, i garanti della legalità in sorridenti colleghi statali, oppressi dalle difficoltà della vita, pronti a vedere tutto con le lenti dell’indulgenza dei cittadini oberati dai mutui rapporti della competizione sociale.
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Insegnare.
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Ma esiste veramente l’attitudine, la ‘’vocazione’’, la possibilità, la capacità di insegnare?
Chi è stato il primo insegnante?
E il primo alunno?
E’ riuscito Dio ad ‘’insegnare’’ ad Adamo ed Eva quale frutto non si dovesse cogliere?
E’ stato un buon insegnante?
Sono stati buoni alunni Adamo ed Eva?
Oppure, viceversa, è stata buona docente per Adamo, Eva, che avrebbe dovuto essere solo una ‘’collega’’, Alunna di Dio?
E Adamo, con Caino, ha insegnato bene?
E Romolo?
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E Gesù, il Maestro per antonomasia, il Rabbi per eccellenza, è stato un buon Maestro?
Si lamentava esplicitamente e giustamente a volte della scarsa capacità dei suoi discepoli di comprendere appieno il suo linguaggio fatto di metafore estese, di parabole, di allusioni allegoriche.
Il linguaggio della poesia, del linguaggio pienamente creativo, che non è differenziazione linguistica, ma dominio delle cose sopra i suoi stessi simboli, metafore e allegorie: le parole, il Verbo.
Il Parlante che diviene, sopra le lingue, Lingua ed è Parola stesso lui in persona, è Verbo.
Parola e parlante, Verbo e allegoria, linguaggio e comunicazione si identificano nell’atto della comunione linguistica e nel dominio della parola, che non è solo segno astratto, ma significante della realtà contenuta nella Mente e nella Memoria.
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Dicendo pane al pane e vino al vino, così raccomandava di parlare.
Ma il Rabbi doveva essere poeta, conoscere i miti, ossia gli archetipi contestuali della sua gente trasformati in racconto, reinventarli, rigenerarli e non parlare banalmente e semplicemente, ma per enigmi, per metafore e parafrasi.
Per ‘parabole’.
Come Apollo, Gesù raccomandava la chiarezza.
La semplicità.
Ma praticava l’oscurità ed il mistero del labirinto linguistico.
Dio parla, ma parla per segni tanto evidenti quanto incomprensibili.
Ma non per questo incompresi.
La pioggia sugli oceani.
I lampi in pieno giorno.
La luce di stelle che esistono anni prima che noi le vediamo mentre le scorgiamo.
Il pianto degli innocenti e dei deboli, il trionfo dei malvagi.
La fortuna dei persecutori, la rovina dei perseguitati.
Gli evangelisti avevano scritto il pensiero, le parole del Rabbi.
Erano stati fedeli all’originale?
Gli stessi fatti erano stati riferiti in base a quattro diversi punti di prospettiva.
Una verità e quattro versioni.
Così era avvenuto per Socrate.
Era stato un buon maestro?
Non aveva scritto nulla, come Gesù.
Platone ne aveva trascritto il pensiero nei suoi dialoghi.
Ma quanto di platonico c’è effettivamente in Platone?
C’è poi qualcosa di veramente suo nei suoi dialoghi, o non è che una sorta di quinto evangelista d’una specie di Gesù ellenico?
Ha forse anticipato, operando da solo sul piano filosofico, umano e letterario, l’atteggiamento degli evangelisti, che trascrissero le parole del Rabbi secondo quattro diversi punti di vista?
Gran parte del pensiero socratico pare di stampo messianico e sembra scritto da Platone come se l’avesse ispirato un dio: il discepolo di Platone parla di qhia mania, di ‘’thèia manìa’’, ‘’follia’’ o ‘mania’ divina, di ispirazione o possessione divina, ‘’entusiasmo’’, quando parla della capacità o competenza poetica, e la pone a stretto contatto con la capacità mantica divinatoria dei sacerdoti.
Platone è un a suo modo un esempio e un modello, un archetipo, sia pure assai complesso e costellato, che precede gli evangelisti.
Egli per amore totale del suo maestro ha rinunciato alle prerogativa precipua, e quasi sempre del resto immeritata, dell’autore: l’originalità.
Questo è un antico punctum dolens della letteratura e dell’arte.
Si potrebbe affermare che sia il fondamento stesso e la ragione di essere dell’estetica.
Cosa appartiene ad Omero dei poemi omerici?
Certo il grande padre Omero non può avere inventato tutto il patrimonio mitopoietico usato nell’Iliade e nell’Odissea.
Quindi almeno questo non è omerico, in Omero.
La scansione ritmica, il formulario epico, le storie stesse che racconta, potrebbero appartenere ad una tradizione legata all’epos (epoV = racconto) che lo ha preceduto e accompagnato nel tempo.
Allora cosa ci sarebbe in Omero di Omero?
La sua straordinaria capacità di amalgamare con uno stile unitario, non senza eleganti apparenti contraddizioni, la enorme materia disordinata e vasta della pratica epica dei suoi tempi.
Tempi in cui la scrittura in Grecia iniziava appena ad affermarsi.
Un autore grandissimo, Omero, vissuto in un’epoca in cui non c’era scrittura nel mondo greco, e quindi nemmeno letteratura, sulla fine del medio evo ellenico, seguito per secoli alla venuta dei Dori dopo la fine delle civiltà minoico cretese e micenea, che usavano sistemi grafotecnici solo per registrazioni economiche.
Eppure quest’uomo paradossalmente ‘illetterato’ è il padre stesso della letterature greca, della tecnica teatrale stessa, del gioco del racconto, del protagonismo e dell'’antagonismo.
Del deuteragonismo.
Della narrativa.
Ha preceduto la lirica, la stessa satira, sebbene lo stesso Platone lo usi come esempio di conoscenza irrazionale e lontana dalla geometrica sincerità della filosofia e della ricerca razionale della verità iperurania, appartenente al solo mondo delle idee.
Quindi il problema dell’originalità nasce con la letteratura, come quello della veridicità nasce con la storia.
Storia e letteratura nascono con la scrittura, ma si nutrono di un materiale immenso che preesiste alla scrittura.
Questo materiale è l’èpos, èpos, il mythos, racconto, mito, nel suo aspetto umano ed in quello sacrale e metafisico.
La scrittura è nata con le civiltà mesopotamiche, molto prima di Omero.
I sistemi di scrittura ideografici assiro babilonesi ed egiziani solo dopo migliaia di anni sono stati sostituiti da sistemi ‘alfabetici’ di natura acrostica.
Si dava un valore fonico ad un segno che ricordava nel disegno un oggetto diffuso e noto che iniziava con un suono simile.
Il sistema alfabetico fenicio consentiva di scrivere con poche decine di segni tutte le parole concrete ed astratte.
Queste erano il punto dolente dei sistemi ideografici, che non erano affatto pratici, perché richiedevano un disegno specifico per ogni parola.
Questa enorme difficoltà ne faceva un sistema grafico esclusivo d’una casta di scribi, escludendo dalla sua pratica la stragrande maggioranza della gente.
In Grecia c’erano stati sistemi di scrittura, con la civiltà cretese e con quella minoica, finite drammaticamente ben prima di Omero.
Dai quattro ai sei secoli prima dell'’800 circa a.C.
Queste scritture, lineare a e b, erano però complessi sistemi fra l’ ideografico ed il sillabico, e venivano usate per ragioni economiche: liste di beni e di mercanzie per magazzini e per fini commerciali.
Intorno all’età omerica si diffonde, per influsso dei fenici, la scrittura alfabetica sillabica nella zona ellenica e nasce il legame non solo fra alfabeto e commercio, ma anche fra scrittura e ‘poesia’, racconto, epos, mito che diventano letteratura e ‘mitologia’.
Centinaia di migliaia di anni erano stati occupati dal racconto, dalla parola, da epos e mito, adesso alla parola si aggiungeva la possibilità di scrivere ogni storia e racconto, e si scopriva che il papiro e poi la ‘carta’ erano più resistenti delle opere in pietra e in metallo.
Exegi monumentum aere perennius, scriverà Orazio, poeta lirico e satirico contemporaneo di Ovidio, Virgilio, collaboratore letterario di Mecenate, uomo di fiducia di Cesare Augusto Ottaviano.
Il tesoro inesauribile del mito, legato alla parole, è dunque alla base della produzione poetica omerica.
Il suo epos, che è un racconto più generico e profano che sacrale e universale come il mito, è legato alle tecniche di conoscenza mnemonica, che sono il primo passo verso la scoperta della scrittura, che è un fatto storico, ma non rigidamente datato.
E’ come se l’uomo scoprisse in fasi diverse della sua esistenza il mistero della fusione fra significato e significante, ossia la scrittura.
Per questo Omero non è il padre dell’epos, del mito, della poesia antica nel nostro mediterraneo, ma è paradossalmente il padre della composizione mnemonica di poemi che subito dopo lui sono stati affidati alla scrittura.
Quindi è il padre della sorgente stessa della letteratura greca, occidentale, antica e moderna.
Questa nascerà compiutamente con la scrittura.
Siamo al cospetto di un cieco, mirabilmente padrone delle tecniche linguistiche e melodiche, inconsapevole di alfabeti come li intendiamo noi, eppure, sebbene illetterato, creatore della letteratura, che si sarebbe sviluppata dalle sue intuizioni.
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Può quindi esistere la scrittura, e con essa la letterature, anche senza scrittura, se intendiamo la mente degli uomini e degli animali capaci di creare archetipi, di elaborarli, di farne racconto e di memorizzarlo.
Memorizzare, individualmente o socialmente, collettivamente, è già letteratura.
Al patrimonio mnemonico manca solo la veste formale e materiale fornita dalle tecniche di scrittura, dai papiri, dalle pergamene e dalla carta.
Trattando l’universo mitico Omero lo trasforma in forma armonicamente narrata.
Prima di lui è la purezza selvaggia dell’irrazionale, il mito, il caos, dopo di lui e con lui è l’equilibrio stilistico e linguistico, il logos che attinge al mito.
Un ordine scritto che galleggia sul magma del tumulto caotico della selva dei sentimenti e delle passioni primigenie e archetipiche dell’animo umano.
Omero è per questo ingenuo, violento, passionale, sprovveduto, propagatore di favole e legato ad una religione complice, non redentrice.
Si potrebbe dire che Omero è ogni uomo, quando manipola il caos personale e ne fa racconto, ‘letteratura’.
Una singolare contraddizione della scuola italiana era portata da Gennaro ad esempio dello stato di malessere che la opprimeva.
Omero, infatti, il più abile poeta greco, non avrebbe mai potuto insegnare nella scuola italiana.
In Italia chi è cieco non può insegnare greco.
Una ben curiosa scuola, quella che escluderebbe dal liceo classico il padre della letteratura greca.
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Gennaro dopo questa divagazione riprende a correggere attentamente i compiti.
Non usa che di rado la matita rossa e blu, ma un pennarello rosso, o addirittura verde, a volte.
Alla fine mette gli elaborati nella borsa di cuoio e plastica avana e va in giardino.
Qui saluta il suo cane Argos.
Lo aveva chiamato così in onore di Odisseo e di Omero, di Penelope e Telemaco.
Di Itaca petrosa.
Di Eumeo.
Di Ulisse, l’errabondo, sofferente Odisseo.
Argos, o kuwn talasifrwnos Oduseos.
Argos, il cane di Ulisse dalle molte vie ...
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beta
Roma è veramente bella.
Ma qualcosa ancora di più, bella è dire davvero poco.
C’è qualcosa di particolare e di accattivante nell’aria, nella sua atmosfera, in quella patina di arcaico e di vetusto che ti fa respirare.
I vicoli di Trastevere sono magici, i colli verdi e fronzuti, le chiese, l’Aventino con Santa Sabina, fatta di frammenti strappati alla classicità.
Il cattolicesimo costruito con i templi pagani saccheggiati, diruti, abbandonati.
Le rovine sparse per la città.
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Una città vinta, distrutta, finita e ricostruita con le sue stesse macerie.
Gennaro ricordava quando proposi qualche anno fa di accompagnare la mia classe di ginnasiali al Quirinale, il giorno in cui il Presidente Sandro Pertini riceveva i giovani delle scuole.
La reazione dei colleghi era stata variegata.
Fra i tiepidi e i favorevoli spiccava la posizione dell’ insegnante di filosofia, un tipo energico, espansivo, chiacchierone ed anche spiritoso ed umoristicamente pluripolare.
Costui non era d’accordo perché riteneva superfluo visitare il Capo dello Stato, o farsi ricevere da lui.
Gli si obiettò che per i giovani poteva essere utile vedere il palazzo del Quirinale, una delle sedi in cui si decidevano le sorti della nazione, sia pure, naturalmente, sentite le altre sue parti e componenti.
Conoscere poi da vicino un Presidente così congeniale ed amato, con un carattere energico e vigoroso, con un modo di parlare accattivante non poteva che risultare … pertinente.
L’iniziativa era stata poi approvata.
Alla fine il pullman era partito, con Gennaro, due colleghe e tre classi ginnasiali ed erano giunti a Roma in poco più di due ore.
Ad una doveva stare attento … perché grattava le penne, ed alle penne era affezionato.
Avevano portato una grossa cesta di spigole e delle pregiate pipe di Massa Marittima.
Consegnò il tutto ai poliziotti che controllavano i pacchi e i doni e raggiunse i ragazzi.
Passarono attraverso grandi saloni e corridoi.
Si trovarono nel luogo preparato per l’incontro.
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Arrivò poco dopo Sandro Pertini.
C’èra un gran cerchio di ragazzi intorno a lui.
Era elegante, vestito d’un abito dai toni bruni, con l’immancabile pipa.
Chissà se avrà fumato mai nelle pipe di Massa Marittima.
A turno gli facevano delle domande.
Toccò a uno dei ginnasiali della loro comitiva.
Pertini si accalorò rispondendo.
Gli era stata rivolta una domanda un po’ … impertinente.
Sicuramente sarà stata suggerita da uno dei genitori.
Probabilmente dalla mamma, conoscendo la famiglia.
L’incontro ebbe termine.
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Con il pullman, dopo una passeggiata per Roma, verso il Tritone, Via Veneto, Via Nazionale, andarono a Villa Giulia, al museo etrusco.
Infine tornarono a casa.
Eppure Roma non sempre gli era piaciuta.
Certo era bello andare dai parenti, ogni tanto.
A Natale oppure d’estate.
Ma fin da piccolo aveva bene in mente che dopotutto Roma era stata una nemica spietata per i Sanniti che in Pietrabbondante, nel Molise, avevano uno dei maggiori centri sacrali.
Era davvero singolare che due suoi zii avessero stabilito proprio a Roma la loro residenza, lasciando definitivamente il paese molisano.
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Era come se il Sannio, quello molisano, dell’Alto Molise, pur vinto dai Romani, ora prendesse la sua rivincita, occupando Roma, abbandonata dai romani, ormai quasi introvabili nella massa degli immigrati d’ogni parte d’Italia, specie meridionale.
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Roma probabilmente è la prima città del Molise, come lo è del resto anche di altre province.
Altri parenti di Pietrabbondante si erano stabiliti a Roma.
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E come poter dimenticare che un governatore romano, per di più d’origine molisana, aveva avuto tanta parte, e per di più passiva, nella morte del Cristo?
Quest’avversione per la città eterna era però a poco a poco svanita, di fronte al suo fascino inspiegabile.
La casa ai Parioli dello zio fratello maggiore di sua madre, avvolta nel verde discreto ed elegante della sua via a forma di ferro di cavallo, dal nome elegante ed evocatore del mondo del teatro, affascinava.
Le stanze eleganti, primo novecento, il profumo speciale dello zio, un profumo dal nome etrusco, l’odore particolare di tutta la casa, l’ingresso in legno, l’ovale sul portone, il giardino con i viali di ghiaia, la grande palma e le siepi ordinate.
I gatti romani soffici e ben pasciuti.
Quella villa era la sintesi del fascino della città intera.
Ritornato a casa, eccolo di nuovo immerso nelle cose abituali.
Dall’anno in cui avevo accompagnato gli Alunni da Pertini, si può dire che le cose erano peggiorate a scuola.
Si sforzava di non avere polemiche con nessuno, ma alcuni insegnanti non facevano che provocarlo.
Qualsiasi sua proposta era bocciata.
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Avrei voluto adottare un libro bellissimo di geografia, ma la proposta non fu accettata perché a dire d’una docente era troppo difficile ed avrebbe impedito agli Alunni di studiare adeguatamente latino e greco.
Insomma si doveva tradurre dal greco e non decodificare l’italiano.
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Così per la formazione delle classi.
Era un’operazione monopolizzata dalle docenti esperte nella conoscenza di affinità e parentele, così da creare blocchi di alunni economicamente congeniali e compatibili, formando poi classi di allievi ‘difficili’ da affidare invece ai docenti di buona volontà.
In questo modo si creava un collante, un legame stretto e solido nei rapporti ordinari, elastico e mobile nei momenti di difficoltà, tale da stringere il docente agli alunni più di una parentela, più di un legame politico o sociale.
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L’alunno, seguito dal docente che lo aveva ‘scelto’ e fatto proprio con l’approvazione tacita della scuola poteva in questo modo ‘benevolmente e serenamente pretendere’ un certo trattamento, rigido o tollerante a seconda dei casi, insomma si veniva a creare un sistema didattico basato su un ricatto.
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Io ti assicuro il successo scolastico – diceva tacito o pensava in silenzio il docente integrato nel sistema – e ti proteggo, tutelo il regolare tuo procedere, purché tu non crei nessun problema, accetti di studiare senza criticare, senza pensare, senza chiedere né pretendere.
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Io ti sopporto – diceva tacito o pensava in silenzio l’alunno – so cosa vuoi.
Se io sono di buona famiglia, di famiglia integrata, sono un prescelto.
Se la mia famiglia è povera, avrò scarse probabilità di sopravvivenza.
I genitori approvavano questo contratto aberrante, nato dai pregiudizi, dalla ingiustizia sociale, dal fatalismo.
Esercitavano di fatto una pressione sociale ed economica fortissima sui docenti, crendo un ‘’blocco didattico’’ basato su una specie di ‘’silent blackmail’’.
Era quello che Gennaro definì, quando fu quasi minacciato di stritolamento sociale e scolastico da questa macina, ‘ricatto silente’.
Silent blackmail...
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Aveva visto al liceo, al ginnasio, insegnanti trattare con estrema durezza, ma apparente e giusta severità, alunni e alunne il cui padre non poteva esercitare un’azione efficace di protezione e tutela sui figli.
Per ragioni economiche, per ragioni di salute.
O perché semplicemente ... non c’erano.
Forse non potevano nemmeno esserci, se non in una forma di praesentia absens.
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Altri buoni rampolli procedevano a gonfie vele fra versioni tacitiane e senechiane che non avrebbero mai compreso se non fossero stati ispirati da benevole Muse.
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Gli eupatridi, o bennati, che fossero stati somari anzichenò, non venivano maltrattati come i nati da padre debole o povero e disarmato, ma venivano vezzeggiati e seguiti amorevolmente, fino alla sospirata ma immancabile promozione.
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I poveri, i nati da babbo debole erano ‘bestie’, ‘scaldavano il banco e nient’altro’, i figli di buon papà erano ‘incerti nell’apprendimento’, ‘sapevano le regole ma erano incerti nella loro applicazione’, vale a dire che sapevano la ricetta dell’uovo sodo ma non trovavano il verso di lessarne uno, se non amorevolmente assecondati dalla fatata Mano di chi sappiamo.
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Docenti vittime non di una forza illegale più forte di loro, ma della ignoranza, della violenza, della prepotenza contenuta nel branco che l’uomo forma, più selvaggio e rigido di quello delle belve, ma più subdolo, legalizzato, irretito in mille leggi create solo per realizzare una forma comica e tragica di ricatto.
Un ricatto che nessuno sa.
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Un ricatto silente.
A ... silent blackmail ...
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Certo, questa teoria può sembrare degna d’un superficiale critico d'uomini.
Ma tutti hanno sempre riconosciuto una natura in parte almeno malvagia all’uomo.
Il bene è un traguardo duro e difficile da conseguire.
Il male è la pratica, la prassi.
La scorciatoia.
Se così non fosse, non ci sarebbero tante leggi e legislatori, tante religioni e norme etiche.
Tanti limiti e confini, reticolati e cancelli.
Il mito stesso è disseminato di cattive azioni, di errori madornali, di empietà commesse dagli uomini.
Tanto che si potrebbe affermare che le bestie, tutto sommato, siamo noi e che gli animali siano in certo qual modo a noi superiori.
Non parlano, eppure si capiscono.
Non fanno scempio dei propri simili, se non in occasioni particolarissime, non accumulano tesori impoverendo i deboli, gli onesti.
Non fingono di amare, di lavorare.
E così via.
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Soltanto l’uomo ha inventato quel sistema stravagante e patetico che chiamiamo ‘scuola’.
E lo ha inventato da poco.
Per gli animali l’insegnante, se così si può dire, è il padre, la madre.
E le classi non sono numerose come per l’uomo.
Anche Dio ha avuto un solo insegnante in suo Padre.
E nella Madre.
Egli stesso ha poi insegnato loro qualcosa.
Aristotele fu un docente fortunato.
Ebbe in un certo periodo un solo alunno.
E che alunno.
Indomabile.
Alessandro.
Quanto a Nerone, ebbe una miriade di docenti.
I migliori intellettuali del suo tempo.
Ma il risultato, a detta dell’ispettore, per dir così, Tacito, non fu certo dei migliori.
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Adesso noi invece, per ragioni squisitamente economiche, abbiamo ideato scuole con classi numerose ove gli insegnanti parlano e vengono ascoltati da un folto gruppo di allievi.
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Eppure, anche a proposito di leggi, e in particolare di legislazione scolastica, il suo amico Paolo aveva da dire la sua.
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‘Sai, Gennaro, se si osservassero tutte le leggi, il mondo si fermerebbe’.
Profonda, singolare osservazione.
Ognuno non deve far altro che scegliere le leggi a cui obbedire.
Alzarsi al mattino e decidere.
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Socrate e Cristo avrebbero perso la partita con la religione, la filosofia. l’ignoranza e il peccato, ma avrebbero salvato almeno la vita, se avessero seguito il pensiero del mio ineffabile amico.
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C’era qualcosa di vero, in quella frase assurda.
Ma presupponeva, questa verità nascosta, che vi fossero leggi inique, e che queste venissero disattese o abrogate.
‘Vedi, Paolo – gli disse un giorno Gennaro – la letteratura occidentale ha, in un certo senso, un padre: Omero.
Un profondo conoscitore del mito, della lingua greca, il migliore degli aedi e dei rapsodi.
Eppure, non avrebbe mai potuto insegnare in un qualsiasi ginnasio italiano.
Nemmeno in quello della cittadina lagunare a noi vicina, di cui siamo stati entrambi presidi’ …
‘E come mai?’.
‘Perché, stando almeno alla iconografia ufficiale, era cieco’.
‘Ma i ciechi possono insegnare tutto!’.
‘Non il greco.
Infatti non vedono accenti e spiriti’.
‘Ma chi vede gli spiriti, è un ... visionario ...’.
‘’ … E va a gestire e amministrare le biblioteche scolastiche, che sono la sorgente della Memoria e della Poesia …’’
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Un tempo ... le biblioteche, madri delle arti e delle letterature, intese quali patrimoni da registrare, scrivere e conservare, erano dette ... guaritruci dell' Anima ...
Tès psykhès jatrèja ... era detta la stanza in cui si leggeva, anche nella prorpia casa ...
E Seneca consiglia la lettura dei grandi scrittori alla Madre Helvia ... ad litteras redi, Mater ... illae sanabun vulnus tuum ...
‘’Insomma … gli insegnanti di greco se vedono gli spiriti e sono pazzi, e in alternativa amministrano e gestiscono le biblioteche scolastiche!’’
‘Stiamo scherzando troppo su questo’.
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In greco gli spiriti sono quei segni che determinano o meno una aspirazione sulla vocale iniziale.
Sembra che sia indispensabile leggerli o percepirli.
Il bello è che i greci non li segnavano.
Probabilmente conoscevano a memoria le aspirazioni iniziali delle parole.
Sono stati i grammatici alessandrini, vissuti nell’epoca ellenistica dopo la morte di Alessandro di Macedonia a segnare accenti acuti, gravi e circonflessi su tutte le parole conosciute della lingua greca.
Insomma, esistono leggi, nella scuola italiana, che, di trovare lavoro come insegnante. impedirebbero ad Omero, se presentasse domanda di incarico ad un Provveditore scolastico attuale.
Forse non potrebbe fare nemmeno il funzionario di Segreteria, organizzare viaggi istruzione, visite didattiche e guidate, gite.
Non vedrebbe gli alunni da custodire.
I pavimenti da pulire.
Le chiavi degli armadi sarebbero tutte uguali o quasi…
Non distinguerebbe i detersivi.
Eppure le opere di Omero, senza che lui o i suoi eredi ci guadagnino nulla, da secoli vengono usate per istruire i giovani’.
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‘E Dante?’
‘Dante ha ancora una condanna in contumacia.
Non sarebbe accettata una sua richiesta di insegnamento, neppure per l’Italiano.
E dire che ne è il Padre.
Insomma, chi ha un procedimento penale in corso non può nemmeno chiedere di insegnare.
Quanto a Leopardi, non aveva neppure un titolo di studio.
Manzoni non ha mai lavorato.
Non avrebbe nemmeno chiesto di insegnare, probabilmente.
Alfieri si costrinse a studiare facendosi legare dal cameriere alla sedia. Immaginiamo un insegnante che, oltre a legare se stesso, leghi tutta la classe.
Impensabile immaginarlo con il registro in mano passeggiare nei corridoi disadorni d’una scuola con corde e catene invece dei libri.
Quasi tutti gli scrittori non avrebbero potuto essere impiegati quali docenti nella scuola italiana, mentre in altri paesi possiamo immaginare di si.
Questo vale anche per i moderni.
Moravia non aveva titoli di studio adeguati alla scuola italiana.
Pavese ha fatto poche supplenze.
Cassola era in regola … coi diplomi … insegnava a Grosseto, poi si è trasferito a Roma.
Insomma, summum jus, summa injuria.
Il massimo della giustizia corrisponde ad una palese nefandezza.
Io non credo però che obbedire alle leggi blocchi la vita
§
Credo, con Socrate, che sia meglio obbedire alle leggi della Polis, e che commettere un’ingiustizia sia peggio che patirla.
Omero non ha mai fatto l’insegnante in senso moderno.
Eppure è stato, come tutti i geni, un insegnante per antonomasia.
Come Dante, del resto.
Oggi non farebbero mai i ‘professori’.
Sarebbero quello che sono, creatori di poesia, artefici di storie immortali, facitori di parole, e le parole sono dono di Dio.
Dio stesso è stato definito ‘Verbo’.
Da Giovanni Evangelista, il prediletto di Gesù, che gli affidò, mentre moriva inchiodato alla croce, la Madonna, Maria, sua Madre.
§
‘In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo’.
In fondo, se il cosmo fosse una lingua, Gesù sarebbe il verbo, la parte vitale, più significativa, la fondamentale, quella senza la cui esistenza tutto il linguaggio sarebbe arduo, limitatissimo, ma pur esisterebbe.
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Dio e Gesù, Dio e il Figlio dell’Uomo, il Padre e il Figlio.
La stessa cosa.
Il figlio è il padre.
Nasce da lui, gli rassomiglia.
Talis pater, talis filius.
Eppure sono anche ‘altro’ l’una dall’altra.
Sarebbe impensabile immaginare Dio neonato nella misera culla d’una stalla, in una mangiatoia.
Invece vediamo in quella situazione adattarsi molto meglio Gesù, Dio Padre nella parte del Figlio.
Figlio di se stesso.
Padre - Figlio.
La conversazione con Paolo si chiudeva spesso con queste dissertazioni piene di legami che cercavo di tessere con varie argomentazioni per sostenere tesi complementari o antitetiche alla sue.
Ma il tema fondamentale fra i due amici restava: esiste una possibilità di comunicazione fra gli uomini?
E di conseguenza: esiste l’insegnamento?
Un esempio di come sia difficile il mestiere di insegnante, di Maestro, viene proprio da Dio.
Dio è stato, ed è, insegnante.
Non solo carpentiere o falegname.
Ha plasmato l’universo ed ha forgiato le immense stelle delle galassie, ha fatto le comete e gli asteroidi, ma ha anche lavorato in una bottega col padre, con Giuseppe.
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Lo sposo di Maria.
E Maria gli ha portato la brocca dell’acqua fresca e una benda per detergere il sudore nelle torride estati.
Ha piallato, tagliato.
E proprio un carpentiere gli ha costruito quella croce su cui è stato inchiodato come un malfattore
E Maria non ha potuto porgergli acqua ristoratrice.
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I soldati gli hanno offerto una spugna con aceto.
Ebbene, Gesù è spesso chiamato ‘rabbi’, insegnante, Maestro.
I suoi alunni erano i discepoli.
Se dovessimo adottare i criteri valutativi di ora, per quanto dozzinali e assimilabili alle valutazioni di un bottegaio, absit injuria verbis, e parlare di crediti e debiti formativi, di promozione o non promozione: a scuola si boccia, ma non si può usare questa parola da società bocciofila: è il frutto delle logoriforme, delle riforme delle oppure a parole, in voga nei tempi nostri, ci accorgeremmo che quasi tutti gli alunni di Gesù erano dei pessimi alunni.
§
Debiti formativi a josa per Giuda, che lo vendette a Caifa, a Pietro, che lo rinnegò, e scusate se è poco.
Erano l’amministratore e il leader del gruppo.
E Giuda era l'esperto linguista, in un certo senso il 'professore' del gruppo, esperto di linguestraniere e di rudimenti di economia ...
§
Gli altri, fra sbandamenti, come all’ orto degli ulivi, quando si addormentarono e abbandonarono i rabbi lasciandolo nella solitudine e nell’angoscia, caratterizzata dal terrore e dalla paura per l’imminente fine, del resto prevista e accettata, e assenze ingiustificatissime, causa di impossibilità addirittura d’una valutazione qualsiasi, sarebbero oggi o non ammessi o non valutabili.
Ad eccezione di Giovanni, che prese con sé una Madre che non era sua, una Madre che Gesù dovette abbandonare sebbene fosse la dulcissima Mater di tutti gli uomini, del Figlio dell’Uomo, di Dio.
Insomma, se un ispettore mandato da uno zelante provveditore avesse fatto le penne al Maestro dei Maestri, ne avrebbe sancita la totale ‘insipienza didattica’.
E che dire di Seneca e Petronio?
Nerone fu loro alunno, Tacito ce ne ha tramandato pagelle e giudizi … scolastici.
Persino il suo rapporto con i genitori, i propri, specialmente la madre, era negativo.
§
E di Socrate?
Il suo alunno per antonomasia, Platone, finì schiavo.
Di tutti questi intellettuali e carpentieri, resta memoria nelle biblioteche.
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Le biblioteche!
Curatrici dell' Anima ...
La perla d’ Italia e delle sue scuole.
Bisognerebbe vedere come funzionano.
Proprio dove lavorano operatori ‘culturali’ qualificati e solerti, diligenti e attenti, i libri sono abbandonati ai pesciolini d’argento, che almeno, per amore di lettura o per sana fame, li divorano.
Per tornare a Platone, dopo aver conosciuto l’umiliazione massima, la schiavitù, si riscattò.
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Ma essere stati schiavi marchia per sempre.
Anche Gesù, la cui ‘’insipienza didattica’’, per la giustizia terrena, sarebbe appurata da qualsiasi ispettore, ha ancora sulle sue spalle una pesante condanna a morte, convalidata da Roma e dal suo imperatore, per aver offeso suo Padre.
Non si poteva essere più spietati con lui, condannarlo per aver bestemmiato, lui che è venuto per compiere la volontà del Padre.
Ma Lui ci ha insegnato che l’insuccesso apparente precede la vittoria.
Alessandro il Grande di Macedonia fu un alunno di Aristotele.
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Anzi, l’ Alunno per antonomasia…
Uccise un amico, mentre era in preda al vino.
Rase al suolo una intera città, eccetto la casa di Pindaro, poeta a lui caro.
Alunno di Chirone fu Achille.
Che vita fu la sua?
Breve e gloriosa.
Il contrario di quel che praticano in genere i docenti di professione.
E quali furono le sue glorie?
Le glorie del più grande guerriero di sempre?
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Lo troviamo mentre, vestito addirittura da donna, e non certo da combattente acheo, viene ingannato da Ulisse, che lo smaschera proponendogli l’acquisto di armi, invece che di monili e belletti.
Molte professoresse che conosco io non sarebbero cadute nel tranello.
Vestite da rozzi guerriglieri, continuano a comprare coltelli e forche, altro che monili.
Lo troviamo poi impavido massacratore di guerrieri di Ilio, distratto mentre Patroclo gli ruba le armi per combattere con gli Achei, da cui Achille si era separato per un storia di donne, per una schiava che non gli era stata concessa da Agamennone, che evidentemente non pensava solo alla gloria militare ed alla vendetta dell’onore ramificato di Menelao.
E lo vediamo infine mentre, ucciso Ettore, lo trascina con il suo carro, fuori oltre limite di pietà e di decenza, per poi restituirne il corpo dilaniato e sporco di polvere al padre, Priamo.
Si potrebbe continuare per molto.
L’insuccesso, quindi, nell’insegnamento sembra la regola.
Ma non la regola palese, splendente.
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La regola silente …
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... The ... silent rule
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Il bello è che nelle nostre scuole si continuano a portare per modelli di popolarità la brutalità di Achille, la pazzia di Nerone, il famoso gesto di Ponzio Pilato, divenuto, o restato, proverbiale e immortale, la scelta fra Gesù e Barabba, la cicuta data a Socrate, che una professoressa tanto ignorante quanto rozza, antonomasia stessa della scuola imperante e dominante, insieme ad altre docenti sue fotocopie definiva in classe un rompiscatole che era stato adeguatamente trattato dagli Ateniesi.
E si continua a parlare di arte, poesia, e cultura greca equilibrata e razionale, quando poi si vede, leggendo qualsiasi libriccino sul mito o sulla storia ellenica, che quella civiltà ‘classica’ era basata appunto sulla divisione, la violenza, la follia e la brutalità.
§
Dedalo creò il labirinto.
Fu ispirato da Apollo.
Il labirinto è il risultato della genialità, della intelligenza, della tecnica dell’uomo.
Ma può imprigionare chi non sia adeguatamente istruito sulla sua natura.
Il labirinto doveva essere la prigione della violenza, dell’ignoranza.
Doveva imprigionare il Minotauro, figlio di Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, e di un toro.
Invece la costruzione diviene prigione di Dedalo e del figlio e alunno Icaro.
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Dedalo riuscirà ad evadere, ma il suo alunno morirà cadendo nel mare Icario, così chiamato da lui.
Dedalo è il più grande artefice dell’antichità.
Ed è un altro caso di '''insipienza didattica'''.
Il suo alunno non apprende.
La cera con cui il padre aveva plasmato, con penne di volatile, le sue ali, si scioglie a sole, a cui il ragazzo non avrebbe dovuto avvicinarsi, e Icaro muore fra le onde.
Si direbbe, considerando l’insuccesso almeno apparente dei più grandi alunni e dei loro maestri, che soltanto nella moderna scuola si pretenda di concludere il corso degli studi con aggettivi adeguati e numeri precisi.
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Certamente non possiamo immaginarci Filippo di Macedonia, al ricevimento mattutino individuale o collettivo pomeridiano dei genitori, essere soddisfatto perché la classe era composta dal solo Alessandro, e quindi non c’era da aspettare come di solito si fa nelle nostre scuole intasate da babbi i mamme in occasioni simili.
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Ma è ancor più certo che il forte Filippo, con le mani sudate, non si sarà sentito dire:
‘suo figlio conosce le regole, ma non le sa applicare’.
Oppure: ’potrebbe fare di più’.
O ancora: ‘bisogna cavargli le parole di bocca con le tenaglie’.
Alessandro sarebbe stato Alessandro, e non si poteva dire di lui quel che ogni docente moderno dice dei figli della gente ordinaria, della gente che non è Filippo o Alessandro di Macedonia.
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Molto più cauto, simile a quelli che avrà dato Aristotele, che era pur sempre Aristotele, è il giudizio dato ai figli dei potenti.
Questi hanno di solito biblioteche simili a quelle di Alessandria, a casa, dispongono eventualmente di luminari pagati a ore, come altre categorie di onesti lavoratori, o lavoratrici, di potenti computer e sono assai bravi, a scuola.
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Nel caso che sdirazzino e siano dei somari, i giudizi non sono mai drastici.
Per loro l’insuccesso non è mai un Golgota, né un incendio di Roma, né lo strazio del corpo di Ettore.
No, per loro c’è sempre e comunque una possibilità di rimedio, udite udite, anche contro il loro stesso volere.
Insomma, salvi per volontà cosmica.
Nati salvi.
E soltanto un loro supremo atto di ribellione può impedire il compiersi di questo fato.
Insomma i ‘nati salvi’, quelli che attraverseranno tutte le difficoltà del liceo o altra scuola e dell’università, quelli che non avranno bisogno mai di nessun bagno catartico d’aristotelico e teatrale memoria, saranno valutati, in caso di risultati non brillanti, con un tratto di delicatezza che invece meriterebbero i deboli, i poveri.
Gli afflitti.
Questi ultimi vengono subito scartati dalla scuola.
Nei primi due anni, e anche, se la Provvidenza non si esaurisce al biennio, oltre.
I docenti parlano di potatura, assimilando gli uomini a piante.
Restano nelle classi quegli alunni che ‘seguono’ con migliore profitto.
Questo dimostra che la scuola non insegna, se è vero che elimina tutti i casi in cui e per cui confessa di non potere intervenire.
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La verità è che esiste l’apprendimento.
Non esiste l’insegnamento.
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Questo ero noto a Socrate e Cristo.
A Platone.
A Francesco De Sanctis e Antonio Gramsci.
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Invece è tranquillamente ignorato dai docenti contemporanei e da quasi tutti i loro dirigenti che intitolano le scuole al priore Lorenzo Milani e perseguitano i pochi che lo sanno seguire, o per lo meno danno la vita per farlo ....
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Infatti gli operatori scolastici dell’apprendimento si definiscono o si lasciano chiamare ... ''docenti'' o insegnanti.
Addirittura gli abilitati all’insegnamento si nominano ''professori'', perché professano pubblicamente la loro facoltà di trasmettitori di cultura e di ... ''saperi'' ....
§
Ma dovrebbero chiamarsi diversamente.
L’italiano, però, è traditore
… E nessuno fa come ha mostrato Dante.
Anche lui, quindi, in pieno insuccesso.
Nessuno cioè ‘inventa’, trova parole più adatte di altre.
Ma pretendere che si cambi un nome da tutti accettato, è voler troppo.
Per questo anche Gennaro continuava a usare quel termine.
Un tempo gli insegnanti non esistevano.
Il Padre e la Madre, con approccio e tempi diversi, insegnavano al figlio le arti, le tecniche per vivere o sopravvivere.
La ‘mimesi’ era fondamentale.
L’uomo non è un animale politico.
E’ un animale.
E come tale imita. Imita gli avversari, soprattutto, copia le loro tecniche se sono più funzionali delle sue.
E non conosce la gratitudine, per questo ama copiare massimamente i nemici. In questo caso l’ingratitudine è d’obbligo.
L’ingrato paga sempre un qualche scotto.
Ma come si può essere grati al nemico?
Lo si può amare.
E questo non costa nulla.
Amare un nemico non ci impegna in nulla.
Ma essergli grato è davvero inconcepibile.
Non se ne accorgerebbe nemmeno.
Per questo, senza nessun disturbo psicosomatico, essere ingrati verso un nemico è cosa naturale e spontanea, quasi doverosa.
Non appena si afferma la civiltà storica, la scrittura, si affermano le naturalissime tecniche della mimhsiV, dell’imitazione, mìmesis.
In sé la mìmesis è pura, limpida.
Si fa quel che si vede fare, con naturalezza. Come in un gregge, in un branco.
Si imitano le tecniche migliori.
A volte si sbaglia, e si imita il peggio, per fretta o necessità.
Poi si parla di errori di massa, di abbagli collettivi.
Rimediare può risultare difficile.
Le tecniche di scrittura si sono diffuse per mimesis.
Dai fenici ai greci, poi agli etruschi ed agli oschi, ai latini ed agli altri popoli.
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Nessuno ha mai rivendicato la paternità dell’alfabeto, come si trattasse del telefono o della spilla da balia, che pure era nota anticamente ma è stata ufficialmente ‘inventata’ solo recentemente, naturalmente dagli ‘americani’, e per questi non s’intende i ‘pellerossa’, espropriati dagli europei emigranti per necessità, per evitare la vergogna della miseria o addirittura il carcere.
Anche Roma nacque così, come ci raccontano i suoi massimi storici, in primis Tito Livio.
Il Mediterraneo era a quei tempi un vulcano di idee senza padre, ma sempre con una madre certa.
Omero è mai esistito?
Si son chiesti i moderni.
E se no, come sono state composte l’Iliade e l’Odissea?
Sono state composte da più aedi?
O le hanno sistemate una miriade di rapsodi.
E chi ha scritto cosa in questo caso?
Insomma, i poveri insegnanti, sempre presi dalla monomaniaca ossessione di correggere gli altrui errori, mai i propri, però, sembrano in ogni caso presi anche dalla dannata voglia di impedire a tutti di copiare.
Però sono poi costretti ad ammettere che la letteratura, l’arte stessa, non è altro che un gran kopja kopja, una raffinatissima, ma non tanto, macromimesis.
L’oriente influenzò la Grecia.
Graecia capta foerum victorem cepit et artes intulit agresti Latio.
Roma, a detta di tutti gli storici, fu la civiltà più dedita d’ogni altra al saccheggio artistico e culturale.
Dall’alfabeto ai materiali usati per la scrittura, nulla vi è di originale, a detta degli stessi autori latini, tranne la satura, che, a detta di Quintiliano,
…’quidem tota nostra est’.
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Pochino, a dire il vero, ed anche la satira aveva i suoi bravi modelli nella letteratura greca.
In Omero stesso, l’inesistente, a detta di alcuni critici ‘moderni’, Tersite fece a modo suo della satira criticando Agamennone ed i potenti fra gli Achei.
E da bravo autore satirico, meritò le bastonate di Odisseo.
Si, perché la satira è molto diversa dagli altri generi letterari.
Vuole ‘cambiare’ il contesto, non solo spiegarlo narrando, divertendo e commuovendo.
E non vuole cambiare i lettori come fa la tragedia con gli spettatori, purificandoli con la narrazione delle sventure dell’eroe, delle sue sofferenze, con la ‘catarsi’, come la chiama Aristotele, ma vuol farlo mettendo in ridicolo elegantemente i loro difetti, come fa Orazio, oppure aggredendoli con energica violenza verbale, come fa Giovenale o Lucilio, prima di lui.
Per questo la satira non vuole solo muovere al riso, come la commedia, ma addirittura si prefigge di ‘castigare ridendo mores’, come appunto dice elegantemente Orazio.
§
Nel caso di Giovenale, il riso è certamente triste, amaro.
Quintiliano ritiene un genere originale dei latini la satira, ma la commedia greca e la diatriba stoico cinica, di carattere moraleggiante, certamente ne costituiscono un antenato, un antecedente innegabile.
In tutto il resto, comunque, i latini ripresero, imitandoli, forse migliorandoli, come fanno i migliori alunni, gli elementi letterari e artistici dei contemporanei e dei predecessori.
Come è stata inventata una ‘questione omerica’ circa l’esistenza di Omero, così hanno escogitato una ‘questione dell’originalità della letteratura latina’.
Ebbene, la mimesis era alla base dell’apprendimento, quando non era codificata la figura del docente.
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E lo resta anche dopo, in larga parte, visto che i migliori docenti sanno che l’insegnamento in reltà non esiste, esiste l’apprendimento più o meno opportunamente facilitato.
Essi sollecitano, facendosi imitare, dopo aver indicato la soluzione dei problemi, gli allievi ad apprendere, ad auto addestrarsi, ad essere attivi, ad apprendere, facilitando questo processo.
L’insegnante così non è in insegnante, ma un facilitatore, un adiutore, un ‘coadiutore’.
La figura dell’insegnante è nata con l’affermarsi della scrittura, con la nascita della letteratura, o comunque della pratica della scrittura.
La prima reazione al nascere della scrittura fu quella dovuta al sorgere d’una una criptoscienza, del sapere nascosto e silente, sia pure inizialmente inconsapevole.
Pochissimi sapevano scrivere.
Si scriveva per ragioni essenzialmente pratiche e commerciali.
Si scrivevano elenchi di beni posseduti nei magazzini dei palazzi del re, dei sacerdoti nei templi, dei commercianti per terra e per mare.
La conoscenza della scrittura, all’inizio ideografica e perciò assai complessa, non era diffusa.
Non ce n’era assolutamente bisogno.
Scrivere era funzionale all’economia, al commercio, era una attività per addetti a quel settore.
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Più tardi la scrittura assunse un carattere sacrale, e divenne strumento della fantasia, della poesia.
Cominciò a nascere una certa ‘letteratura’, sempre limitata ed esclusiva.
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Presso i faraoni egizi gli scribi divennero una casta privilegiata.
Il carattere criptoscientifico della scrittura qui diviene voluto.
Scrivere diviene attività da praticare in tutta riservatezza.
Una pratica per pochi da tenere lontana dalla massa, che non la conosce, non la pratica.
Se insegnamento vi fu, e ve ne fu, in Mesopotamia e in Egitto, fu insegnamento di eletti ad eletti, in un segreto naturalissimo, in quanto nessuno degli estranei si sarebbe mai sognato di ‘scoprire’ i segreti delle attività grafologiche.
Il lavoro, durissimo, impegnava operai e contadini.
Il faraone, la casta sacerdotale, i funzionari statali, gli scribi si dedicavano alla attività esclusiva e naturalmente sconosciuta alle ‘masse’ della scrittura.
Scriba insegnava allo scriba.
Faraone al faraone.
Funzionario al funzionario, sacerdote al sacerdote.
Scriba, faraone, funzionario, apprendevano da se stessi.
Dai propri simili.
L’insegnamento non esisteva, in quanto attività specifica ed isolata dal contesto, faceva parte dell’attività stessa dell’uomo, della sua vita. Era il modo per vincere il tempo, per essere in un certo senso presenti anche dopo la fine della vita, negli allievi.
Esisteva l’apprendimento, il divenire uguale o superiore rispetto al maestro.
Essere come lui. Essere lui.
Quello che si chiama adesso insegnamento, dunque, come e dove è nato?
Deve essere nato quando qualcuno ha ‘pagato’ un altro perché insegnasse a un ragazzo qualcosa che il padre stesso non sapeva, non poteva, non aveva il tempo per insegnargli.
Deve essere nato da un patto e da un contratto.
Ed i patti, i contratti per l’uomo sono sempre credibili se economicamente validi e vantaggiosi.
C’è dunque un gesto economico alla base del mestiere di insegnare?
E’ un’attività che si rivela solo in presenza di remunerazione?
§§
Nell’antica Roma l’insegnamento, dapprima affidato agli schiavi, era economicamente testato.
Lo schiavo era acquistato con un certo investimento.
§
Campagne militari, acquisto vero e proprio.
Veniva mantenuto molto decorosamente, specialmente se specialista in attività utili.
§
Più tardi, in epoca imperiale, l’attività didattica divenne una ordinaria attività privata, con scuole non a carico dello stato ma legate al contributo delle famiglie che ne usufruivano.
§§§
A quel punto si configura come insegnamento quella attività remunerata che comporta la custodia di alunni affidata ad un individuo, il maestro, l’insegnante, incaricato di curarne l’apprendimento con sistemi approvati dalla comunità e programmi concordati e mediati dal senso culturale comune.
§§§
Nel Medio Evo torna l’apprendimento.
Il rapporto fra docente e discente è molto più che un ‘pecuniam do ut me doces, un ‘quanti doces?’.
Il cavaliere apprende, ma è legato a chi lo addestra da un legame sacro, profondo, che non esiste nell’attività didattica odierna.
Se non in casi rari, eccezionali.
In epoca rinascimentale ricompare la remunerazione per l’insegnante.
... Nasce la bottega.
§
L’artista affermato lavora, e spesso usa il lavoro degli allievi che contemporaneamente producono e apprendono, in un ambiente ingombro di arnesi ed opere in esecuzione, attorniato da apprendisti, spesso più geniali di lui, le cui famiglie pagano.
§§
Il sistema funziona per tutte le attività dell’arte e dell’artigianato.
Si formano dei collegi, dei convitti ove giovani anche forestieri soggiornano in città come Firenze.
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E’ un soggiorno a carico delle famiglie ed ha carattere attivo, operoso.
‘Tristo è quello discepolo che non supera lo maestro’, dirà Leonardo da Vinci a proposito dell’attività didattica in generale, certo pensando alle botteghe fiorentine e a quanti ‘alunni’ avevano superato i loro didàskaloi.
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Quanti pensieri affollavano la mente di Gennaro.
Ma uno soprattutto lo riguardava.
La scuola.
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gamma
L’estate imminente si fa sentire.
Il clima è più caldo.
La gente in paese si prepara alla lunga stagione di sole e di mare.
Si prepara ad accogliere i turisti come ospiti.
Saranno trattati con tutti i riguardi.
Riempiranno le strade, le piazze, la chiesa, i negozi.
Passeranno qui un periodo di vacanze.
Verranno per riposarsi, ma correranno il rischio di stancarsi, fra sport, sole e musica.
Sarà una stanchezza sana, però, quella che li investirà.
La stanchezza ristoratrice che dona gusto alla vita.
Le scuole stesse si preparavano ad autosospendersi.
Le lezioni sarebbero riprese a settembre.
A fine giugno e luglio si sarebbe celebrato il rito inutile, cappello dei corsi scolastici lunghi e ripetitivi, la farsa degli esami.
Non è sufficiente alla istituzione scolastica sottoporre ad un esame continuo e asfissiante alunni incerti e docenti onesti.
I docenti disonesti non vengono esaminati, e nemmeno gli alunni ‘bravi’.
I primi vengono quasi presi a modello: non usano libri, imitano gli alunni più furbi e ricchi, sono amici dei facoltosi.
I secondi servono da base ai docenti nella correzione dei compiti, nelle interrogazioni.
Dopo cento scrutini di fine anno, ecco che si sarebbero ripetuti gli scrutini precedenti gli esami, e dopo gli esami gli scrutini sulle prove di esame.
Esami.
Una manciata di giorni in cui la fortuna avrebbe deciso al posto del lavoro e dell’impegno di anni di studio.
Professori giovani, al posto dei rinunciatari, avrebbero chiesto ancora quelle ‘informazioni’ che da secoli chiedono agli alunni, in modo sconcertante, come se la risposta non fosse mai stata data.
Sembra incredibile, ma nelle nostre scuole i docenti chiedono ancora chi sia l’uccisore di Giulio Cesare.
E lo fanno con test(s) e\o questionari^....
Scrivere, o anche il solo leggere ... ormai è attività desueta, anticamente praticata da solitari e impulsivi grafomani che hanno riempito biblioteche e archivi di racconti noiosi.
Per non dire del resto.
Testi d’ogni genere d’inutile cosa.
Gli esami sono sempre stati la cosa più scintillante ed inutile della scuola, addirittura anche la più dannosa, perché capaci di dare una possibilità agli opportunisti, docenti e alunni impegnati nel mimetismo testuale organizzato, didatticamente testato, e di rappresentare un rischio per gli onesti, per gli ‘’originali’’ poco inclini all’arte del copiare, o all’esibizionismo conoscitivo, e per questo costretti, a richiesta contestuale, ad esibirsi nella aleatoria opportunità di una prova capitale, a mettere in discussione tutto il proprio studio e lavoro passato, il proprio valore, per una manciata di voti, per un pugno di punti.
§§§
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§
E che dire delle riforme della scuola tentate ultimamente?
La scuola trasformata in una bottega di infimo ordine.
Non una bottega rinascimentale, ma una rivenditoria di misticanza di dubbio gusto.
Crediti e debiti formativi.
Libretto personale.
La superficialità comune, la passione per il denaro, per il ‘successo’ scolastico e no, per l’eleganza della forma e la povertà della sostanza si era impadronita della scuola, della fabbrica dei futuri cives.
I luoghi comuni, i pregiudizi, l’appoggio al male, al poco onesto, l’esaltazione della moneta forte e il disprezzo per la fatica dura e povera avevano invaso quella invenzione tutta moderna che è la istruzione pubblica, facendone un immenso parcheggio di uomini giovani affidati ad addestratori poco preparati, avvezzi solo alle vacanze, incapaci di frequentare le biblioteche, di scrivere, di leggere, di rispettare quei pochi che amavano il lavoro.
§§§
E questo sistema stravagante, extra vacans, produttore di approssimativismo, propagatore di debolezza onestà culturale, fratello solo del semplicistico mercimonio del do ut des, pecuniam aut pecus, si reggeva insieme con una legge non scritta e non detta, una legge forte più del bronzo, del basalto, della carta stessa, degli hard discks e dei floppies, d’ogni computer.
Questa summa lex,
questo summum jus,
era la summa injuria
del ricatto silente.
E’ bene insegnare ed essere pagati dallo stato.
Ma è meglio arrotondare con lezioni private a casa propria.
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E’ meglio anche approfittare della opportunità che offre la scuola di insegnare ai propri alunni, naturalmente a pagamento, nella scuola stessa, firmando un semplice foglio, per dare un sostegno ai deboli, per sollevare le insufficienze e consentire il successo scolastico, abbattendo la mortalità e gli abbandoni, flagello delle scuole, e se la cosa non funziona, allora si invitano gli 'utenti dell'istruzione' a fare il bis, 'repetita semper juvant, così almeno ci si fa una fama di gente seria e inflessibile.
Mostrando i muscoli ai Giovani allievi, magari ai più deboli e inermi...così rafforzano le loro risorse, irribustiscono le capacità di lottare ...
Le ore sarebbero poi state registrate, controllate e pagate, arrotondando i minuti.
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''...Marcet sine adversario Virtus ...''
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‘Si natura negat, faciat indignatio versus’.
Diceva Giovenale.
Ma a lui l’indignazione nuoceva, se ne accorgeva.
Gli provocava solo guai.
Era come se si prendesse gioco d’un ciclope.
Rischiava dure rappresaglie anche quando si fosse ritenuto ormai al sicuro dai terribili monocoli.
Erano dei formidabili lanciasassi, in servizio effettivo anche una volta accecati.
Per loro non si trattava di insegnare greco.
Catapulte immani, colossali, ciclopiche.
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E intanto rientrano in porto i pescherecci.
Come grosse anatre, colme di cassette di pesce.
Spigole, mazzancolle, acciughe e sgombri.
'Acertoli' e calamari.
Polpi e mitili.
Fa scuro, l’aria, il mare e il cielo si confondono.
Cessano le distinzioni, la guerra.
Tutto è azzurro, sereno e celeste.
L’acqua scintilla come fosse di ferro sotto i rostri.
I motori l’arruffano, le grandi barche dai nomi variegati si girano di poppa e rallentano avvicinandosi al molo.
Da terra aiutano l’ormeggio.
Poi dondolando le navette si fermano e viene calata a terra la passerella.
Inizia lo sbarco del pescato.
Era uno spettacolo sensazionale, unico, eppure si ripeteva tutte le sere uguale e tutte le sere differente.
Idem et aliud.
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Sarà il caso di affrettarsi.
Argo lo aspetta e deve uscire per la sua passeggiata lungo le vie del paese.
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Porto Santo Stefano.
Il papà e la mamma si erano trasferiti lì, con un atto di coraggio.
Pietrabbondante era rimasto loro nel cuore.
Un giorno sarebbero tornati.
Ma il tempo era passato ed era giunta l’eternità.
Ora il tempo era fermo.
Tutto era fermo.
Anche il cuore e la mente di Genni.
Come lo chiamava da piccolo papà.
Papà, con la sua divisa da ufficiale, nel deserto.
Con la sahariana.
Papà che sciava e andava in bicicletta, con Genni seduto e aggrappato al manubrio.
Papà che studiava le lingue in India.
L’inglese, la lingua dei nemici, il russo, la lingua dei comunisti, l’indiano, la lingua di Buddha, il tedesco, la lingua del comando.
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E’ nato un fiorellino
nel prato mio laggiù
sereno come il cielo
e di colore blu.
E vuole anche parlare
piccolo com’è
ma dice solamente:
‘non ti scordar di me’…
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Era una traduzione di papà.
A volte, quando Gennaro preparava gli esami all’università, il padre andava da lui e parlavano di poesia e letteratura per ore.
Il padre era contro lo studio della metrica.
La riteneva un metodo per storpiare la lettura dei classici, un insieme di regole astruse e strampalate.
Insieme avevano studiato l’etrusco, imparato a leggerlo.
Gennaro pensava spesso al Padre.
Ogni giorno.
Ogni ora.
Ricordava tutto di lui.
Le parole.
Gli insegnamenti.
La forza.
Argo si agitava quando vedeva afferrare il guinzaglio di pelle ed i moschettoni luccicanti.
Era arduo sistemargli il collare, quando saltava e si contorceva per la gioia.
Gennaro scende per la lunga scalinata fino al mare, di qui prende per una strada fiancheggiata da grandi pini, lungo un piazzale emisferico terminante con una struttura di cemento armato in disarmo detta siluripedio.
Una base adibita a deposito di siluri durante l’ultima guerra.
Era stata quella, probabilmente, la ragione del terribile bombardamento effettuato dagli americani.
La strada saliva poi lasciandosi alle spalle le ultime case ed una villetta elegante, ma dall’aria un po’ trascurata, circondata da arbusti che divenivano sempre più fitti, fin quasi ad impedire il passaggio.
Il panorama a quel punto si faceva magnifico.
Argo veniva sciolto e passeggiava da solo.
Ad un richiamo, generalmente il suo nome pronunciato con intonazione fatica, correva come un cinghiale, e diveniva pericoloso in quel sentiero stretto, perché si avventava alle gambe senza tanti riguardi, come uno sciatore che sfiorasse i paletti durante la sua discesa in pista.
Salendo sempre più in alto si arrivava a breve distanza dal faro, poi si saliva sulla panoramica e si tornava a casa.
Rientrato, prepara una relazione sul funzionamento della biblioteca del suo liceo.
Diverse volte era stato bibliotecario.
La prima volta, a quattordici anni circa.
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Uno zio, morendo, aveva lasciato a lui l’onere di provvedere ai libri vecchi e polverosi d’una casa sul corso principale del suo paese di nascita.
Naturalmente poteva provvedere solo virtualmente ad un impegno del genere, visto che studiava in collegio, fuori dal paese.
I libri vanno custoditi, toccati, se non proprio letti uno per uno, come gli amici, altrimenti deperiscono, s’impolverano, vengono attaccati dai parassiti e muoiono, come le piante.
Aveva poi frequentato le biblioteche da studente universitario, a Roma.
Biblioteche grandi, nelle cui sale di lettura troppo riscaldate d’inverno, e anche questo può nuocere ai libri, come l’umidità eccessiva unita a una temperatura troppo bassa, aveva letto volumi su volumi sul Rinascimento fiorentino, in particolare su Girolamo Savonarola e la sua opera moralizzatrice e politica in Firenze fino al 1498, anno in cui fu giustiziato.
A scuola aveva fatto conoscenza con le biblioteche quanto insegnava in una classe dell’Istituto Tecnico Industriale di Manciano, sezione della stessa scuola di Grosseto.
Aveva pensato di preparare un elenco di volumi, che erano stati acquistati, e ne aveva fatto una specie di biblioteca per la sua classe.
Dopo aver fatto leggere i volumi ai suoi alunni, li aveva riportati a fine anno nella sede centrale.
Al liceo raramente aveva visto lavorare in biblioteca un preside.
Gli insegnanti, in genere, fuggivano a gran forza dagli scaffali dei libri, si dedicavano alla conversazione nei corridoi e negli uffici, alla tessitura della ‘’rete sociale’’.
Lui solo aveva trovato catastematico entrare in biblioteca, pulire e riparare i libri, aveva provveduto alla parziale catalogazione dei libri, alla schedatura, facendosi aiutare qualche volta da gruppi di alunni.
Idea geniale, il coinvolgimento degli alunni nelle biblioteche, sia per le ricerche e le letture, anche parziali, dei testi, sia anche per le semplici ma salutari operazioni di manutenzione libraria.
I libri in un certo sento vanno trattati bene, con amore e con pazienza.
Non vanno solo letti e sfogliati.
Vanno custoditi e curati.
Gennaro trovava l’idea dell’impegno in biblioteca degli Alunni davvero ottima, a lui congeniale e qualche anno dopo avrebbe realizzato quel tipo di sinergia alunni docente, ma solo in parte, per colpa dell’opposizione d’una impiegata del liceo, che evidentemente poco gradiva una forma moderna di gestione della biblioteca e la considerava una intrusione nelle sue sacre e ingiallite carte.
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Nelle scuole, anche se non in tutte, la gestione delle biblioteche era organizzata in modo fiacco e deludente.
Locali inadeguati, scaffalature sbilenche, cataste di riviste e libri da catalogare, andirivieni di docenti spesso di fatto autorizzati a prelevare libri da scaffali aperti, prelievo di decine di volumi da parte di pochi docenti che poi si incaricavano di smistali agli alunni, alunni incapaci di frequentare ed usare la biblioteca stessa.
Quando non erano luoghi di pettegolezzo o magazzini di comodo per la spesa.
Pane, pasta e salumi, con tutto il rispetto per queste buone cose, facevano concorrenza a Foscolo, a Chomsky, a Gramsci e, naturalmente, occupavano il tavolo che sarebbe spettato a qualche funzionario.
Non di solo pane, vive l’Uomo…
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Erano passati pochi anni, poi era stato nominato bibliotecario al tempo d’un altro preside di Grosseto.
Quasi suo coetaneo.
Questo gli aveva chiesto di monitorare il patrimonio librario per annotare quali libri mancassero.
Uno scherzo.
I libri erano circa settemila.
Da solo avrebbe impiegato settimane o mesi, con i ritmi suggeriti dalla scuola.
Ebbe un’idea.
Invitò i suoi Alunni in biblioteca, li dispose a gruppi di fronte agli scaffali ed in pochi minuti la mappa dei volumi della biblioteca era pronta.
Con grande disappunto della segretaria, che avrebbe preferito tempi più lunghi, docenti in bilico sulle scale e lavori che si sarebbero protratti per tutto l’anno scolastico.
Soltanto professori e preside, secondo qualcuno, possono mettere la sacra mano su certe carte.
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E invece secondo un suo precedente preside di Grosseto, e secondo le persone intelligenti, gruppi di alunni possono essere coinvolti nella sistemazione e nella cura del patrimonio bibliografico.
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L’amministrazione e la contabilità, restino pure agli esperti di ragioneria, ai tecnici addetti.
Scrisse poi al preside chiedendo che il locale della biblioteca non fosse usato come sala insegnanti, ma solo come sala per la consultazione ed il prestito dei libri.
Ottenne questo, ma poco tempo dopo dovemmo lasciare la sede del Liceo per trasferirci nei locali che ci mise a disposizione il Comune presso la Scuola Media.
Una volta arrivati nella ‘nuova’ sede, tutti si accorsero della concessione fattaci.
Le aule avevano finestre alte due metri da terra, il corridoio era senza luce, comunicante con l’aula magna della Scuola Media, la stanza della presidenza comunicava con quella della biblioteca per il tramite d’una scala e ne era separata da una balaustra, essendo su un piano più alto.
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Lo stesso Liceo comunicava con la Scuola Media con un’ampia scalinata.
Sarebbero occorsi anni per separare aule e scuole con tramezzi prefabbricati.
Per molto tempo la scuola sarebbe stata un cantiere.
Durante le lezioni di lirica greca e epica latina le stanze sarebbero state inondate dal suono del trapano e del martello.
Quell’anno Gennaro passò dal ginnasio al liceo.
Lasciò italiano, storia e geografia e conservò latino e greco.
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Sarebbe stato titolare di quella cattedra fino al 1998, anno in cui, privato della Madre da cinque anni, si sarebbe trasferito per ragioni di lavoro a Grosseto con Argo e sposato con Anna Maria.
Si era deciso a passare al liceo per una serie di ragioni.
L’anno precedente una sua alunna non si era inserita bene nella classe ed aveva instaurato un pessimo rapporto con i compagni.
Non c’era stato verso di migliorare la situazione.
Ad un certo punto anche il babbo si era impuntato per un cinque e mezzo in una versione di greco.
La preside, una romana che arrivava tardi col treno e ripartiva al più presto, quando pure arrivava, aveva prudenzialmente chiamato un ispettore.
Dopo essere stato minacciato infantilmente da quel ‘genitore’, che affermò di poterlo danneggiare e colpire perché lavorava al ministero dell’interno, come se questo fosse un persuasivo deterrente per il prossimo, il povero Gennaro si trovò ad essere inquisito .
Sembrò quasi che quella preside volesse deliberatamente dirigere le cose a danno del professore, che invece doveva essere tutelato e difeso, visto che aveva rivelato tutto al Capo d’Istituto.
Così proprio il giorno di Santa Scolastica, il 10 febbraio, arrivò l’ispettore, una donna.
Fumava accanitamente ed aveva sul tavolo della piccola presidenza un mare di relazioni e di compiti dei suoi Alunni.
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Lesse, soppesò, pescò, confuse i compiti in classe con quelli svolti a casa.
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Gennaro aveva l’abitudine di far leggere molti libri agli Alunni.
Dopo aver letto un testo di narrativa, si doveva svolgere delle relazioni secondo un preciso organigramma.
Occorreva preparare una sintesi o parafrasi, poi ragionare sul tema centrale, su tutti i temi collaterali, infine occorreva scrivere le osservazioni di stile, ossia analizzare la struttura della frase, la funzione del linguaggio, le figure retoriche: i traslati.
Tutto questo rispecchiava gli studi sulla linguistica e sulla stilistica compiuti da Gennaro negli anni dell’università e della scuola.
Strutturalismo, trasformazionalismo, De Sausurre, Jakobson e via dicendo.
Naturalmente, alla base di tutto, il precussore della moderna linguistica, Dante Alighieri ed il suo archetipico precursore: Platone.
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L’ispettore aveva certamente notato che nelle relazioni non ci si accaniva nel registrare tutti, ma proprio tutti gli errori.
Infatti era una idea di Gennaro che non si dovesse infierire, per non mortificarli, per non scoraggiarli, segnando a forti tinte gli errori.
Gli sembrava un’utile misura precauzionale per la psicologia stessa dell’Alunno.
Aveva letto qualcosa di questo genere su un testo della Le Monnier.
Didattica della materie letterarie nella scuola superiore, di Viti, Pieraccioni, Santoro, Berardi e Camerini.
Eppure l’ispettore annotò il suo pregio come se fosse un difetto.
Era un’ispettrice che veniva direttamente dalla preistoria.
Ma da quale punto della preistoria?
Il periodo che noi chiamiamo ‘storia’ è in realtà brevissimo.
Lunghissima invece è la fase precedente la storia.
E’ un’epoca in cui regna l’istinto, l’irrazionale, il mito.
Eppure c’era anche allora qualcosa di razionale.
Di logico.
Cosa mai marcava il confine fra preistoria e storia?
E la preistoria è davvero finita?
E’ forse la scrittura il confine fra queste due fasi?
Nel momento in cui il primo uomo ha segnato la prima parola, un insieme di significato e significante, si è passati alla storia?
E gli altri uomini, quelli che non conoscevano il fatto straordinario accaduto allo scopritore delle ‘lettere’, erano restati nella preistoria?
Ed oggi, quelli che non scrivono, ma telefonano, usano sistemi più facili, apparentemente, sono uomini storici con un piede nella preistoria?
La scrittura.
Un sistema geniale e razionale per addomesticare il caos dei concetti, dei pensieri.
Per incanalarlo in saldo pensiero, per dirla con Dylan Thomas.
Le regole della sintassi.
Regole create per e con la scrittura, o preesistenti?
Innate?
La capacità di contenere il latte per un bollitore, è forse innata o nasce con la prima bollitura?
Problematiche ardue.
Nemmeno i computers del Pentagono e della Nasa potrebbero rispondere facilmente a questa domanda.
Una domanda che risale alla filosofia platonica, e che qualcuno goffamente ripropone oggi.
In realtà non c’è stata frattura fra l’epoca del mito e quella della logica.
I due momenti coesistono.
Nella stessa unica vita d’un individuo.
L’infanzia è la fase dell’irrazionale, dell’istinto, che non esclude qualche aspetto logico, razionale.
La maturità è la fase logica, ma non esclude momenti di illogicità, di irrazionalità, istinto, mito.
Il mito.
Un termine molto vago, dal significato complesso, vasto.
Un tempo la realtà, multiforme, aggrovigliata, immensa, veniva trasformata in racconto, in personaggi, eroi e divinità.
In mythos, mito, racconto.
Il mito era la realtà trasportabile nella memoria, dentro l’uomo, con il suo cuore e la sua anima.
Per ogni circostanza della vita c’era un mito che la spiegava, la chiariva, ad essa si avvicinava per metafora ed allegoria.
Il mito accompagnava l’uomo, contribuiva a spiegare il mondo quando era bambino, adolescente, ad accettarlo da adulto, a rassegnarsi saggiamente a perderlo una volta alla fine della vita.
La realtà è tutto.
Quel che si dichiara e mostra come esterno a noi.
Fuori.
Possiamo appropriarci d’una parte della realtà, apparentemente di tutta la realtà, trasformandola in sogni, idee, parole e concetti.
Ma l’appropriazione diretta della realtà è parziale e incompleta.
Essa ci è fondamentalmente e naturalmente estranea, aliena, allotria.
Ci sfugge, anche se, paradossalmente, possiamo toccarla, vederla, ascoltarla.
‘Roba mia vientene con me!…’
Gridava Mazzarò nel momento in cui si accorgeva che avrebbe perso la sua roba, perché questa non lo avrebbe seguito nell’altra vita.
Percepire la realtà non basta a dimostrare che essa sia come noi l’avvertiamo.
Potrebbe essere altra, diversa.
Di essa abbiamo una conoscenza fatta di visioni, idee, concetti e siamo portati a credere che la realtà esterna sia proprio questo insieme di conoscenze che di essa abbiamo accumulato.
Questa realtà interna, noi la trasformiamo in parole.
Poi possiamo scriverla.
La scrittura ci porta quindi alla quarta realtà.
Una sola di queste realtà è effettiva, intrinseca.
Le altre sono mediate, sono delle copie, direbbe Platone.
La copia della realtà interna, ossia la conoscenza.
La copia delle parole.
La copia della scrittura.
Tutti questi momenti vengono presentati sui libri di scuola come separati.
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Ma nella vita d’un uomo si succedono spesso e si avvicendano simultaneamente, sincronicamente, come possono avvicendarsi diacronicamente.
Nell’infanzia si ha un rapporto diretto, sensuale con la realtà.
Poi la si comincia a ‘portare dentro’, trasformata in immagini e concetti, poi la ri comunica e racconta, nell’età del mito, poi la si scrive.
La si conserva nei documenti e nei manoscritti.
La scrittura è un sistema per registrare con segni non significanti parole significanti, collegate cioè a pensieri, idee.
Ma la memoria stessa dunque è un sistema di scrittura.
Funziona però a livello individuale, mentre la scrittura può collegare più individui capaci di comunicare con un codice comune.
Se la memoria è un sistema di scrittura e la scrittura segna il confine fra la fase della preistoria, lunghissima, e quella della storia, brevissima, si potrebbe dire che in effetti non c’è mai stata una sostanziale differenza fra le due fasi.
La differenza è consistita nel sistema di scrittura usato.
Quello interno, predisposto nell’uomo, nel caso della preistoria, e quello esterno, da lui inventato, nel caso della storia.
L’ispezione veniva dalla terra sacra della preistoria.
Dall’età del mito, dell’irrazionale, della memoria.
Non però da quella lunghissima età che comunemente chiamiamo preistoria, ma dalla preistoria personale, dalla propria infantile irrazionalità.
Si valutava a lume di naso, non si era letto che le norme nude e crude riguardanti le sue mansioni.
Così, passata l’ispezione, Gennaro decise di non insegnare più italiano e di passare al liceo.
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Avrebbe insegnato solo latino e greco.
Ma si sarebbe accorto più tardi che in realtà non aveva mai smesso di insegnare italiano.
Era come se fosse un insegnante di ‘ linguistica classica ’.
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Amava la prima classe del liceo.
La quarta ginnasio.
Insegnava a leggere l’alfabeto greco.
Qualcosa che Omero stesso certo non avrebbe potuto fare.
L’alfabeto fenicio si diffuse in Grecia proprio all’epoca del cantore di Ettore, Achille, Enea ed Ulisse.
Era come essere professore e maestro insieme.
Della linguistica lo affascinava la questione della fusione cosciente del significato e del significante.
Idea, immagine, concetto uniti a segno, parola, lettera.
Quando l’uomo aveva scoperto il segreto del linguaggio?
Forse da sempre.
E da sempre lo riscopriva alla fine dell’infanzia, quando iniziava a parlare e scrivere con la consapevolezza di controllare la comunicazione, o per lo meno di desiderarlo, di provarci.
Lo scrivere era una attività interessantissima.
Tutti gli esseri scrivono.
Solamente l’uomo lo fa con oggetti esterni alla sua persona.
Non si può dire se sia un limite o una conquista.
Certo fa così da pochi millenni.
Gli animali ‘scrivono’ costruendo dighe, sbarramenti, torri, nidi resistenti e perfetti, lasciando tracce di sé, odori, umori.
In questo modo lanciano segnali effimeri o duraturi.
Persino nel modo di camminare, di avanzare, di volare, di guardare, di muovere la coda gli animali ‘scrivono’, parlano, segnalano.
Forse, contrariamente a quel che pensiamo, gli animali siamo noi.
Imperfetti, con i nostri quaderni, i vocabolari, i dischetti ed i CD.
Gli animali hanno un sistema che permette loro di capirsi indipendentemente dal paese di origine, dall’età.
Insegnano e apprendono mirabilmente.
Crescono decine di figli, e li addestrano tutti.
L’uomo durante la sua vita educa a malapena una generazione di figli.
I più prolifici fra gli umani sono certi educatori, certi insegnanti.
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Gennaro aveva sempre avuto il sospetto che questo accadesse per consentire loro di usufruire di lunghissimi permessi.
Conosceva professoresse che avevano avuto quattro, cinque figli.
Erano rimaste in casa per sacrosanti e legittimi congedi almeno tre o quattro anni.
Ebbene, per educare ogni figlio queste donne avrebbero impiegato venticinque anni a testa.
A qualsiasi altro animale sarebbe bastato un anno o al massimo due.
Insomma, questo geniale sistema per comunicare, il linguaggio e la scrittura, mirabili e quasi divini strumenti di comunicazione, sembrano servire più per ostacolarla ed impedirla che per facilitarla.
Come ogni arnese, la lingua può essere usata per stabilire contatti e comunicare oppure per confondere ed ingarbugliare.
Questo gli faceva pensare alla sua scuola, a quando aveva dovuto allontanarsene.
Non lo avevano capito.
E per anni incolpò se stesso.
Ci riprovò, ma andò ancora male, peggio di prima.
Andò via.
Ritornò dopo anni, quando il liceo era ormai l’ombra di se stesso.
La prima volta che cercò di farsi capire su un terreno ed un livello insolito per un ambiente scolastico la preside equivocò le sue intenzioni e gli scatenò una guerra persecutoria contro, alleandosi ai peggiori elementi dell’ambiente cittadino.
Gennaro quell’anno era stato molto attivo, aveva organizzato convegni, incontri, e questo forse aveva allarmato l’ambiente scolastico.
Inoltre c’era il fatto del suo modo di insegnare.
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Durante le versioni di greco e di latino faceva ascoltare musica classica agli Alunni.
Per attenuare la tensione, l’ansia.
Proponeva sempre gli argomenti durante le spiegazioni in modo tale da tenere desta l’attenzione con sollecitazioni emotive.
E poi, non rimandava mai.
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In effetti dall’anno in cui due professoresse lo avevano lasciato solo durante gli esami, costringendo il preside ad abbinarlo ad altri docenti, Gennaro non aveva più rimandato.
Aveva anticipato la cosiddetta riforma della scuola, iniziata più di dieci anni dopo la sua decisione.
Questi ed altri atteggiamenti avevano fatto del docente originario dell’ alto Molise il beniamino degli Alunni e dei Genitori.
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I professori in genere passano la vita a leggere manuali schematici, non libri.
Le cose che studiano, poi, sono sempre ostinatamente le stesse.
Quindi, fanno sempre le stesse domande.
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L’anno in cui Gennaro aveva subito la prima attenzione contestuale didattica era stato nominato dal Vescovo di Orbetello e Soana Coadiutore del Centro Culturale Tre Fontane.
Ma le nomine della Chiesa hanno una particolarità.
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Non hanno un termine di scadenza.
Non le estingue nulla e nessuno.
Nemmeno la sparizione del loro oggetto di interesse.
E quella nomina non era mai stata annullata.
Anche se Gennaro non avesse mai messo piede nel palazzo delle Tre Fontane, sarebbe stato … eis aiòna, in aeternum, ‘coadiutore’ della sua biblioteca, del Centro culturale omonimo.
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Dopo un periodo di impegno con i volontari ospedalieri, aveva deciso di continuare ad aiutare chi ne avesse avuto bisogno, uomo o animale, ma senza far parte di nessuna associazione.
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Januario credeva nell’assenza, ed aveva sofferto enormemente per l’assenza del Padre e della Madre.
Fino a trasformarli in compagni invisibili della sua vita.
Come una ... praesentia absens ...
Era come se pedalando solo, vedesse sempre un ciclista forte e saldo avanti a lui.
Un ciclista che difficilmente poteva raggiungere.
Un ciclista che aveva conosciuto con i pantaloni e la sahariana avana nel deserto dei Numidi.
In Libia.
Con la camicia piena di tasche.
In India, dove studiava il russo e l’inglese e il tedesco ed altre lingue.
Come avrebbe potuto superarlo, lui che non aveva ancora imparato bene il latino ed il greco?
Non si poteva competere con lui.
Il desiderio di ogni padre è che il figlio lo superi.
Lo voleva anche Ettore, come disse ad Astianatte e Andromaca prima di essere ucciso da Achille.
Quando Deifobo non poté fornirgli lance, impedito da Athena.
Astianatte fu gettato dalle mura di Ilio da Neottolemo.
Il figlio di Achille.
Andromaca divenne schiava.
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Il desiderio di Ettore, l’eroe più grande, non si realizzò.
Così non è giusto che il figlio superi il padre.
E’ giusto che lo aiuti, se non ce la fa, come fece Enea con Anchise.
Qualcuno si era interessato alla sua famiglia.
Qualcuno si interessava a lui.
Offendeva l’indomabile dio della luce e della conoscenza, al cui cospetto nulla è la forza d’ogni altro, il dio del momento in cui si toccano la tenebra e la luce, il dio della luce nera e del suo Animale, il Lupo, Luce, e del luogo di Poebus, il Liceo, il posto del Lupi.
A questo Dio Socrate volle, prima di bere la cicuta e morire, si sacrificasse un gallo, perché la morte sarebbe stata per lui come una cura, la liberazione dagli affanni della vita.
Gli insegnanti invece non giurano a nessuno.
Un tempo giuravano alla Repubblica, che non è un dio.
Ma il loro dio, anche se non lo sanno e forse non lo … sa neppure lui, è Apollo.
Apollo è il dio della luce, del Sole, della chiarezza e della sapienza, del futuro e della profezia.
La medicina, con Esculapio, era nata da lui.
Nove dee, le Muse, lo servivano.
In un certo senso era il dio più influente e potente dell’olimpo greco.
Il suo monte era il Parnaso.
I suoi servitori, i poeti, con le loro parole d’acqua e di fuoco, le loro lacrime e i loro sorrisi.
Un unico amore nella sua vita, Dafne.
Si era trasformata in alloro prima che lui la sfiorasse.
Apollo le era rimasto sempre fedele.
All’alloro, alla Poesia.
A Dafne.
Il suo deuteragonista era Dioniso.
L’improvvisazione, l’attimo.
Carpe diem.
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Apollo era conoscenza, studio, programmazione.
Gli insegnanti non sapevano di avere un dio potente, più potente di ogni altro.
E perdevano la grande opportunità di seguirne la forza, la formidabile possanza.
Il dio della luce.
Il dio greco nella cultura mediterranea si era trasferito anche nel Dio di Giacobbe.
La prima cosa creata da questo fu la luce.
Gennaro era convinto che solo apparentemente i greci erano politeisti.
In realtà il Dio vero ed unico, astratto, immateriale, eterno, invisibile ed onnipotente era Tuch, il Fato, la Sorte.
Regnava su tutto e tutti, era naturalmente imperscrutabile, al di sopra delle altre divinità soggette alle circostanze fisiche, sentimentali, temporali.
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Fra queste divinità Apollo e Dioniso erano le sole ad avvicinarsi a Tuch. La Sorte, il Fato, Tykhe.
Si potrebbe dire che i due, che non si manifestavano mai insieme, come succede per il passato/futuro ed il presente, il giorno e la notte, ma separatamente, in quanto l’uno era programmazione e progetto, l’altro realizzazione, sommati insieme avrebbero potuto essere Tuch, Tykhe.
I greci quindi non erano più politeisti degli altri popoli, dediti al culto d’una grande quantità di idoli, di simulacri divini, di dei.
Con l'apparente superficialità degli Antichi si era battuta la mente dei filosofi, sempre austeri, critici verso la religione scanzonata e festaiola dello Zeus eterno conquistatore di cuori femminili, Hermes imbroglione e truffatore, Giunone distrutta dall’eterna, e giustificata, gelosia e altre allegre divinità giulive.
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Per qualcuno, l’intero mondo, il Kosmos, era un unico organismo vivente.
Per altri, pochi elementi si combinavano generando o configurando le in numeri specie.
Infine per due, Socrate e Platone, gli universali e le idee erano la realtà, tutto il resto ne era copia materiale.
Una copia informe rispetto all’originale, perfetto e puro.
La bellezza della natura è poco rispetto alla perfezione formale delle idee, per le quali la stessa immagine è forma ma è anche sostanza.
Eidon.
Idea.
Aristotele poi arriva ad una specie di materialismo classificatorio e tassonomico.
Per lui la realtà è fisica.
Oltre la fisica è arduo spingersi.
Meglio osservare ta fusika’, tà fysikhà, le cose fisiche, la natura visibile, sensibile, misurabile, tangibile.
Il mondo è nelle mani dell’uomo, nei suoi occhi, nei suoi sensi.
Cambiando il mondo, cambierebbe la sua visione nell’uomo.
Cambiando l’uomo, cambia il mondo, anche restando com’è, per assurdo.
Il dio Dioniso guardava il mondo vedendo sé stesso allo specchio.
Il mondo siamo noi, è come noi.
E’ la proiezione dei nostri sentimenti e penetra in noi provocandoli incessantemente.
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È nato un fiorellino
nel prato mio laggiù
sereno come il cielo
e di colore blu.
E vuole anche parlare
piccolo com’è
ma dice solamente
‘non ti scordar di me …’
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Questa poesia, apparentemente semplice ma invece assai complessa, poiché racchiudeva l’idea stessa della memoria emotivamente commossa e motivata, della letteratura, della vita interiore affettiva, era stata tradotta dal padre quando era prigioniero in India, durante la seconda parte, quella finale, della guerra degli alleati contro Hitler.
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epsilon
Tante cose in oblio non vanno
restan sempre presenti nel cuore
e potranno lenirci l’affanno
nei momenti di cupo dolore
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Erano versi di suo padre.
Suo padre era un classicista.
Aveva un gusto spiccato per la simmetria, la misura.
‘Poco ma bene’…
Gli diceva.
E: ... ‘festina lente!’
E ancora:
‘Non fare stranezze!’
... Stranezze.
... Stravaganze.
... Errori.
Eppure lui dal Molise era finito in India.
Extra vagare.
Era stata davvero una stranezza la sua?
O era stata stranezza quella di chi aveva evitato la guerra non per amore della pace, ma ricorrendo ad astuzie ed inganni penosi?
E’ stravaganza quella di un Dio che muore per salvare degli irrecuperabili imbroglioni?
O era stranezza quella di chi vive di compromessi ed espedienti accorti e prudenti?
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E’ prudente il vigliacco, o il guerriero accorto?
Questo è sempre tutto da scoprire.
La coscienza è buon giudice.
Ma come la memoria, non può essere consultata dagli altri.
La parola, anche la scrittura, in epoca successiva, la rendono ascoltabile, leggibile.
Ma quel che diciamo e scriviamo è fatalmente ‘altro’ e diverso da quel che pensa il nostro cuore, da quel che elabora la nostra testa.
Il Pensiero e la Parola.
Il Padre e il Figlio.
La parola può allontanarsi dal pensiero, oppure anche essere più precisa.
Certo non è la medesima cosa, eppure Padre e Figlio sono la stessa cosa.
Talis Pater, talis Filius …
Dedalo e Icaro.
E’ lo stesso Dedalo che muore, quando Icaro affoga nel mare.
E’ lui stesso che sbaglia, sbagliando invece il figlio.
E il mare Icario è come se si chiamasse Dedalio.
Gennaro era suo padre.
Era sua madre.
Era nato da essi, e come ogni figlio ... era essi.
Eppure era un altro individuo, con caratteristiche proprie.
Come poteva essere possibile tutto questo?
Forse tutta l’umanità, compresi gli animali d’ogni specie e persino gli insetti erano un unico essere vivente.
In questo modo il padre e il figlio erano la stessa cosa, ma non proprio la medesima.
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Genn era arrivato alla fine dell’anno scolastico in forma perfetta.
Qualche mese prima aveva avvertito la forza tornare a scorrere in lui.
La sentiva calda, potente, possente come il suo cane Argos.
Si sentiva il cane del suo cane.
Animali nobili, i cani.
Non necessariamente migliori dell’uomo.
Per essere il suo migliore amico, bisogna pure che qualche difetto lo abbia, il cane.
Certo fra tutti gli animali il cane deve essere il più paziente e tollerante.
Sopporta tutto.
O quasi.
Certo è un animale forte.
Nobile.
Fanno male a ... non accettarli in Chiesa.
Capirebbero la parola di Gesù meglio degli uomini.
Forse la Chiesa perseguita coloro che poi chiama 'santi' e scaccia coloro che capiscono la Parola di Dio?
E’ forse meglio avere a che fare con peccatori generici?
Con loro si sa cosa dire, e forse si lavora bene.
La Chiesa somiglia alla scuola.
Ambedue vogliono avere a che fare con ignoranti e incolti, per erudirli e illuminarli.
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Ma non si deve dire 'bocciare' ...
Meglio una litote, una attenuazione.
Si dice ‘non promosso’ l’alunno che ora viene bocciato.
La riforma comincia dalle parole.
Purtroppo spesso rischia di fermarsi lì.
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S’impara lavorando e ricercando.
Con la parola, emotivamente diretta e motivata, si può indirizzare verso l’apprendimento.
Ma l’apprendimento deve essere una scelta individuale, una via da percorrere con sacrificio e rinunce, per questo si potrebbe supporre che l’insegnamento non esista.
I veri facilitatori dell’apprendimento non sono stati insegnanti in senso così banale.
Buddha, Socrate e Gesù non ponevano domante preconfezionate, ma facevano nascere nell’animo dei loro discepoli le risposte.
Come se in esso fossero già contenute.
Così diceva di trovare Michelangelo le statue entro le masse di pietra.
Erano già contenute.
Bastava togliere il superfluo.
E’ un metodo che Platone, socratico, ben conosceva.
Insegnare è quindi aiutare ad apprendere.
Null’altro.
E scusate se è poco.
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Stolto è dunque chi impedisce ai docenti di aiutare i propri alunni.
Aiutare qui significa indirizzare, togliere dalle aporie, dalle difficoltà, impedire che l’angoscia, la paura entrino nell'animo dei giovani e producano danni irreversibili, generino ipocrisia e inganno, abituino al furto delle idee e delle conclusioni altrui.
Insomma, quando si è in presenza dell’ inconsapevolezza, bisogna chiedersi: è autentica, o è finta?
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Chi veramente è sapiente, non è mai un servo.
Non si definisce tale.
Anche quando si mette al sevizio del debole resta libero.
Nessuno è veramente orgoglioso di avere al proprio fianco un uomo che si definisca servo.
Chi serve un altro, per lavoro o per missione, deve servirlo come un fratello, come un re, e dargli un trattamento regale.
Il suo saluto non deve essere da servo.
Il suo aiuto deve essere elegante, semplice, affettuoso.
Come se fosse un re che aiuta il più caro degli abitanti del suo regno.
Certo, senza esagerare.
Est modus in rebus.
Chi esagera non sarà mai re, neppure in casa propria.
Non sarà mai neppure sapiente.
Sarà servile ed anche un po’ ignorante.
Certo, riuscirà comunque volontariamente o involontariamente a fare spettacolo, finché potrà.
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L’ignoranza autentica, l’innocenza, lo stato di inconsapevolezza dei primitivi, dei bambini, dei puri, è un’altre cosa.
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Si sente inadeguato, il saggio, sovente, impreparato, anche se 'insegna', non smette di apprendere, studia e legge continuamente.
Ma più studia, più si sente ignorante.
Non sa però se la sua era l’ignoranza di Socrate e San Francesco o quella falsa e opportunista degli pseudoignoranti, degli istrioni dell’impreparazione, della distrazione continua, del ‘non saprei… non ricordo … ricordamelo fra qualche giorno … devo studiarmi bene la questione, ripassa…’
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Lo era stato anche Socrate, docente di Platone, a sua volta docente di Aristotele, un grande ignorante con tanto di autocoscienza adeguata a tale stato critico di sé stesso.
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Basta non smettere mai di apprendere, di ricercare, di studiare.
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Per un po’ Gennaro aveva divagato.
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Si era distratto perdendosi nei suoi pensieri.
Aveva ricordato il suo passato.
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Di quando era stato praticamente o virtualmente ostracizzato.
O forse si era liberato lui da una compagnia non confacente.
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In seguito, dopo anni trascorsi a Grosseto, era ritornato sul promontorio dell’Argentario.
Era così bello il mare, come mai prima.
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Il cielo azzurro, la terra ricoperta di piante, di ginestre fiorite, di unghie di strega.
Questa era la terra che il Padre aveva scelto per lui e che Anna Maria sua moglie aveva a sua volta accettato di buon grado.
Qui sarebbe rimasto benissimo.
Gennaro di Jacovo
§ _§_Rosetum Kalendis Augustis MMI_§_§
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Gennaro di Iacovo
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Grosseto domenica 16 settembre 2007
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lunedì 5 dicembre 2011
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